Chi è colui che si dopa? È un debole, uno che ha bisogno di orpelli e trucchi. Una persona che ha talmente poca considerazione di sé che si ritiene incapace di raggiungere i suoi obiettivi senza l’”aiutino” medico o tecnologico dall’esterno. Queste sono persone che vanno aiutate e non solo criticate (anche se a volte viene automatico).
Cari amici,
oggi vorrei ragionare con voi sui casi (ormai purtroppo numerosi) di doping tecnologico. Premetto che io sono una grande estimatrice delle e-bike.. penso siano il futuro, sia per gli spostamenti in città (essendo green ed energia pulita) sia per chi, come me, lavora ed ha poco tempo ma non rinuncia alla “sudata domenicale” e che in qualche modo sopperisce agli allenamenti che non riesce a fare con qualche watt (elettrico) in più. È chiaro che se però parliamo di competizioni allora la chiave di lettura è completamente diversa. Io personalmente non faccio gran distinzione tra doping “medico” e doping “tecnologico”, il pensiero di fondo è lo stesso, l’obiettivo il medesimo.
Qual è il profilo mentale di un atleta che si dopa?
Prima di rispondere a questa domanda (chiaramente dal mio punto di vista) vorrei allargare la prospettiva. A mio avviso chi si dopa è una persona che “trucca” i suoi limiti, portandoli un po’ più in là…
Qualche anno fa avevo scritto già qualche riga al riguardo che riprendo qui, proprio perché sempre attuale.Il desiderio di superare i propri limiti è intrinseco all’essere umano. Questa è la “tensione evolutiva” di cui parla Jovanotti, è l’energia e la motivazione (unica dell’uomo rispetto al mondo animale) che viene mentalizzata e trasformata in azione. È una forza dirompente, una energia vitale che ha permesso all’uomo di emanciparsi, di evolvere, ed è grazie ad essa che siamo usciti dalle caverne, ci siamo uniti in tribù, ci siamo stanziati vicino a corsi d’acqua, abbiamo inventato la ruota, creato l’elettricità, costruito case, siamo arrivati sin sulla Luna, ecc. ecc. ecc.
I grandi scrittori hanno sempre raccontato le gesta di eroi e personaggi che hanno cercato di superare i loro limiti e di raggiungere l’onnipotenza (diventare Dio). E allora mi vengono in mente Adamo ed Eva nell’Eden che disobbediscono a Dio, oppure Icaro che volando con ali di cera cade rovinosamente al suolo perché avvicinatosi troppo al sole o ancora Ulisse ed il suo viaggio.
Ora, il punto non è tanto il volere o meno superare i limiti, il punto sta invece innanzitutto nel riconoscerli e cercare di superarli con tutti gli strumenti leciti che abbiamo e soprattutto, una volta fatto tutto ciò che è nelle nostre possibilità, riuscire ad accettarli senza cercare vie alternative.
Bene, mi direte voi, sulla teoria non abbiamo nulla da dire, ma quando poi ci troviamo nella delusione e nella frustrazione della sconfitta non è così facile. Certo, pienamente d’accordo. È un passaggio difficile e spesso doloroso che però ci libera. E allora tornando alla domanda iniziale… chi è colui che si dopa?
È un debole, uno che ha bisogno di orpelli e trucchi. Una persona che ha un senso di autostima e di padronanza bassissimo. Che ha talmente poca considerazione di sé che si ritiene incapace di raggiungere i suoi obiettivi senza l’”aiutino” medico o tecnologico dall’esterno. Queste sono persone che vanno aiutate e non solo criticate (anche se a volte viene automatico). In questa ottica quindi diventano vani i ragionamenti degli appassionati che mostrano i risultati di indagini in cui il doping non esiste solo nel ciclismo, ma c’è anche negli altri sport. Bella scoperta e soprattutto magrissima consolazione!
A mio avviso ora, l’unica cosa che possiamo, anzi che è nostro dovere fare è renderci promotori di una cultura diversa. Una cultura che viene raccontata alle nuove generazioni in cui si porta con passione la bellezza di un risultato raggiunto con le proprie forze, in cui la costanza, l’impegno e la dedizione diventano dei valori fondanti. In cui il divertimento arriva prima del risultato. In cui si aggiungeranno nelle squadre giovanili persone che supportano i ragazzi a superare la delusione e la frustrazione di una sconfitta e non tanto medici pagati per evitarla. In cui si valorizzi la prestazione e non tanto il risultato, il sentire di essere riusciti ad esprimersi al massimo vale più di una vittoria. In cui la sconfitta non venga demonizzata ed in cui passi il messaggio che non tutti sono campioni.
Il processo di cambiamento sarà molto lungo e richiederà un impegno collettivo. Ciò però non ci deve spaventare. Dovremo fare come i coltivatori di datteri; conoscete il detto “ chi pianta datteri, non mangia datteri”? La palma da dattero impiega 100 anni a dare i primi frutti, poi ad ogni stagione spuntano ciclicamente, ma chi ha piantato quella pianta non mangerà i suoi datteri.
Noi dovremo fare cosi, seminare di nuovo affinchè le nuove generazioni potranno godere della dignità che questo sport merita. Sarà dura, ma è, a mio avviso, l’unico modo per salvare il nostro bellissimo sport!
Elisabetta Borgia
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